Ieri, giovedì 12 febbraio, ho avuto il piacere di leggere un intervento dell'amico Michele Nardelli, sul quotidiano L'Adige. Ve lo ripropongo qui.
Alzare lo sguardo
di Michele NardelliDovremmo imparare ad osservarla, Trento. Possiamo viverci, lavorarci, passeggiarci e non vederla. Non riuscire a metterne a fuoco i caratteri, le trasformazioni, la memoria. In ogni edificio, anche in quello più recente, possiamo leggere un tratto della storia della nostra città, ciò che esprimeva quel passaggio di tempo sul piano dei rapporti sociali o delle tendenze culturali. E’ un invito, il mio, ad alzare lo sguardo. A guardare con occhi diversi le immagini che ogni giorno ci passano davanti. A pensarsi in luoghi che prima di noi sono stati di altri e che dovremo consegnare ad altri ancora.
E’ questo, in primo luogo, che chiedo al candidato sindaco per il centro sinistra autonomista. Di sfuggire a quella sorta di autismo che ci porta a rincorrere gli avvenimenti piuttosto che ad interrogarci su dove intendiamo andare. Lo chiedo anche alla nostra comunità, spesso incline agli umori viscerali e ai rumori cupi che ne vengono, piuttosto che alla fatica dell’interrogarsi nella ricerca di risposte non banali o condizionate dalle paure, vere o irrazionali che siano.
Oggi Trento è una città che ci viene invidiata, ai primi posti delle classifiche della qualità della vita in Italia. Ma solo negli anni ‘60 e ‘70 non era affatto così. Gli effetti di una industrializzazione pesante si vedevano nell’aria e (si nascondevano) nei suoli. Così nelle vite di tanti operai che in quelle fabbriche del piombo o degli idrocarburi ci lavoravano e ci morivano. Erano gli anni delle carte moschicide nei negozi di alimentari e del mito della carne in scatola, del DDT e dei rifiuti bruciati a cielo aperto lungo il torrente Fersina della mia infanzia. I quartieri crescevano seguendo logiche speculative piuttosto che un disegno armonico, compromettendo il fondovalle e le colline, in quel delirio che nulla concedeva al bello e al profondo, quasi che tutto dovesse essere sacrificato sull’altare delle “magnifiche sorti e progressive” dello sviluppo. Ad un certo punto l’Adige riprese il suo vecchio corso, ma anche questo non fu motivo di riflessione collettiva sul nostro rapporto con la natura. Qualcuno, per la verità, cominciava ad interrogarsi, ma certo il concetto di sostenibilità non aveva allora grande cittadinanza.
Di quegli anni ci portiamo appresso ancora molte ferite. Le aree di Trento nord cariche di veleni, la collina in sofferenza, una parte del Bondone inguardabile, Piedicastello ancora in agonia, i “non luoghi” che molti si trovano ad abitare. I poteri forti, che nel mattone hanno avuto ed hanno il loro habitat naturale, hanno inferto colpi feroci alla città, ma questa ha saputo reagire. L’autonomia, la straordinaria stagione di partecipazione che furono gli anni ’70 (non dovremmo mai dimenticare il ruolo dei primi Comitati di Quartiere), ma anche la lungimiranza di una parte – trasversale – della politica, hanno fatto sì che la città potesse conoscere una nuova stagione. Così Trento è diventata una città gradevole da vivere (per la qualità dei suoi servizi e per le opportunità che offre), da visitare (per il suo patrimonio artistico ma anche per le sue proposte culturali), accogliente e distesa (per chi ci viene a studiare come per chi intende costruirsi una nuova esistenza lontano dai luoghi di origine). C’è da esserne soddisfatti ed un pochino orgogliosi.
Tutto questo non ci impedisce di vederne limiti e criticità. Intanto perché la sfida urbanistica è tutt’altro che vinta. Abbiamo di fronte la straordinaria occasione che ci viene dalla progettazione delle aree industriali dismesse e delle vecchie caserme ma sappiamo quanto l’“urbanistica contrattata” sia condizionata dalle richieste volumetriche dei costruttori. Alle grandi suggestioni urbanistiche dobbiamo riconoscere che non ha corrisposto la capacità della politica di ripensare la città capoluogo nelle sue funzioni e nel suo rapporto con la periferia. Com’è possibile, ad esempio, pensare alla riduzione del traffico cittadino se ogni giorno gravitano su Trento decine di migliaia di persone che qui lavorano e studiano? Questo per dire che – accanto alla fantasia dei Busquet o dei Piano – è necessario interrogarci su come possono incidere il telelavoro o la dislocazione di funzioni in altre aree della provincia. Viene inoltre sollecitata la “rivoluzione del bello” e sono d’accordo, perché se un luogo è privo di grazia, con fatica questa troverà spazio nell’animo di chi vi abita. Ma anche su questo piano non dovremmo esitare ad interrogarci sulle azioni possibili di “restituzione”, affinché Piedicastello – nel ripristino del suo aspetto di prima dello svincolo – non rimanga un fatto isolato. Ho in cuor mio l’idea di ri(n)tracciare il percorso fluviale, laddove oggi sorgono orrendi edifici (il parcheggio di via Petrarca, i palazzi che presero il posto dell’hotel Bristol o del Cinema Italia…) che andrebbero semplicemente abbattuti, affinché la memoria delle trasformazioni possa vivere nella moderna identità della città.
Ritorno alla memoria, perché non riguarda solo l’assetto urbano ma anche la qualità del vivere. Si usa dire che una società priva di memoria si condanna all’assenza di futuro. Cos’altro è, se non questo, lo spaesamento? Per questo temo l’imbarbarirsi delle relazioni, come esito di cambiamenti che non facciamo in tempo ad elaborare e che riverberano nella nostra comunità le contraddizioni (e le derive violente) che portano spesso con sé. Così come temo la solitudine, che dello spaesamento è insieme causa ed effetto, che ci rende aggressivi e che ci fa vivere in sottrazione rispetto ad ogni altro. Alzare lo sguardo significa entrare in comunicazione, con i luoghi e le persone. E riscoprire il piacere del dialogo.
Per questa stessa ragione, al pragmatismo preferisco “la fatica del pensare”. Ci sentiamo ripetere fino alla noia “fatti, non parole”: eppure dovremmo avere imparato che l’agire privo di pensiero non solo non porta da nessuna parte, ma produce disastri. Al pensiero collettivo, curioso ed aperto al cambiamento, dovrebbe servire la politica: un approccio che ho ritrovato nelle parole e nello stile di Alessandro Andreatta. Credo che le elezioni primarie per la scelta del candidato sindaco del “centro sinistra autonomista” offrano alla città di Trento una bella occasione per riflettere su di sé e riannodare passato, presente e futuro.
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